
Cassaforte di famiglia: legittima la gratuità dell’amministratore se prevista nello statuto
La giurisprudenza conferma che la carica di amministratore non è necessariamente onerosa. Per evitare contestazioni fiscali, è opportuno inserire nello statuto una clausola che preveda la gratuità del mandato, salvo diversa deliberazione assembleare.
Nella pianificazione patrimoniale, le società holding o “cassaforte di famiglia” sono sempre più utilizzate per gestire e preservare il patrimonio familiare, anche in ottica di passaggio generazionale. Spesso gli amministratori sono membri della famiglia e non percepiscono compensi, poiché traggono utilità indiretta dalla gestione della società. Tuttavia, l’Agenzia delle Entrate tende a contestare tale impostazione, applicando la presunzione codicistica di cui all’art. 1709 c.c., secondo cui il mandato si presume oneroso, emettendo avvisi di accertamento per compensi non dichiarati.
La giurisprudenza di legittimità (Cass. SS.UU. 1545/2017; Cass. 285/2019) e di merito ha chiarito che il rapporto di amministratore è di immedesimazione organica e non assimilabile al mandato o alla prestazione d’opera. Pertanto, non si applica la presunzione di onerosità. Gli articoli 2364 e 2389 c.c. attribuiscono all’assemblea la competenza a determinare il compenso, ma non impongono che la carica sia retribuita: è legittima la gratuità se prevista nello statuto o deliberata dai soci.
Soluzione operativa
Per prevenire contestazioni fiscali, si consiglia di:
- Inserire nello statuto una clausola che preveda espressamente la gratuità del mandato degli amministratori, salvo diversa deliberazione assembleare.
- In assenza di tale clausola, riportare la gratuità nel verbale di nomina degli amministratori.
Questa previsione, pur non obbligatoria civilisticamente, è utile per evitare che l’Agenzia delle Entrate invochi erroneamente la presunzione di compenso.